Guarda che è ben strano perché a conoscerti un poco, mai avrei pensato questo tuo incontro libresco proprio con lui…
Ma infatti, dopo negli anni, mi sono accorto che nulla era condiviso tra me e questo personaggio.
Poi ho conosciuto una persona molto più grande di me che si chiamava Leone. Lui mi ha indirizzato alla cultura dell’arrampicata: Rehinard Karl, John Gill e tutti quanti gli altri. Questi si avvicinavano sicuramente molto di più al mio carattere o a quello che avrei voluto avere. Credo che comunque ‘sta storia di Bonatti sia stata come leggere un libro senza interrogarsi più di tanto perché lo avesse fatto, capito? Un po’ come per i libri di Maestri e di Messner . A me non è che mi sia mai fregato nulla di ‘sta lotta con l’alpe, non mi rimbalzava minimamente proprio. Però era un libro come un altro. Come leggere Moby Dick, poi non è che pensi di essere Achab, anzi più facilmente t’immagini d’essere la balena.
Poi quindi ti sei costruito un tuo immaginario alpinistico di riferimento?
In un certo senso sì, abbiamo costruito un nostro personalissimo Pantheon, ma con un muro altissimo, anche perché poi non avevamo la possibilità di andare fuori a verificare se quello che stavamo a fare era in linea con il resto d’Italia.
Guarda, io più vado avanti e più mi rendo conto che la storia di tutti è proprio questa qua: la difficoltà più grande, tanto più per noi che eravamo provinciali, era quella di mettersi a confronto. Non c’era alcun desiderio di andare a vedere cosa facessero gli altri, anzi ogni volta che qualcuno proponeva di uscire dai confini subito qualcun altro interveniva: «no, ma perché, stiamo così bene a casa!». E questo è durato per parecchio tempo, non avevamo neanche diciott’anni allora. Questo ha sicuramente creato non poche difficoltà anche nella nostra maturazione personale: il desiderio continuo di appartenere ad un gruppo, a qualcosa, non è stato poi così fruttuoso.
A quel tempo stavamo sempre lì in questo famoso sito vicino a Sora, dove andavano anche gli Alpini; e ogni giorno aprivamo qualcosa. Non ci rendevamo manco conto di quello che stavamo a fare, però era così divertente.
Usciti da scuola andavamo là, dormivamo là, facevamo i muretti; c’eravamo inventati una specie di cucina economica fatta con tutti i disastri. Insomma, stavamo là. La vita all’aperto di un anormale soggetto di paese. Poi questa montagna, che si chiama Colle San Casto, è la montagna di tutti: un colle in mezzo alla città con un castello, un paese diroccato, sterrati, sentieri ripidi, rocce, alberi etc., un mondo a parte. Ecco era questo il nostro Pantheon, aldilà dei miti e delle mitologie. E infatti quando veniva qualcuno ci dava notevolmente fastidio. Sì, prima eravamo schivi, fuggitivi: appena si presentava qualcuno, anche solo se era a piedi a camminare tendevamo sempre ad evitare il confronto. Poi, tempo dopo ci capitò di fare una gita in Alpi Apuane e lì abbiamo capito che come noi facevano anche altri. Facevamo senza sapere perché lo facevamo. Almeno in quel periodo storico. Adesso saprei benissimo dirti cosa fare e come farlo.
L’avvicinamento all’arrampicata è stato dopo la scoperta delle montagne. Io avevo fatto già il Cervino e ancora non arrampicavo: la nostra inizialmente era un vita proprio di montagna, ecco anche perché l’influenza di Bonatti. La montagna ci interessava, l’arrampicata non sapevamo cosa fosse. Sì, avevamo visto ‘sti Alpini esercitarsi, però sai…
Non c’era in noi neppure l’aspetto romantico, perché ti devo dire la sincera verità che ogni volta che si andava sulle Alpi non è che sentissimo tutto ‘sto romanticismo. Anzi era una tortura di solito: ore e ore di treno per arrivare fino là, capitava spesso di essere trattati in modo sgradevole. Non eravamo poveri, ma neanche capaci di amministrare bene questi periodi di vacanza. E facevamo ‘ste vacanze di 3 mesi: arrivati ad agosto eravamo proprio dei barboni fatti a mestiere. Poi abbiamo iniziato a conoscere un sacco di gente quindi la situazione è diventata un po’ più familiare.
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