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Così parlò Andrea Imbrosciano - Parte 1

Una mattinata a tu per tu con il profeta burino.

A lui temo non farà gran piacere, ma quando penso all’Andrea la prima parola che mi s’appiccica in zucca è eretico. Eretico non quanto un Fra Dolcino o un Tommaso Moro, ma volendo fare quelli che vanno in cerca di radici: eretico come quelli che fanno una scelta; e Imbrosciano è sicuramente un soggetto che ha scelto (a volte anche di non farsi capire).

Partito da Sora, una non così piccola cittadina del frusinate, quando ancora i dinosauri scorrazzavano fieri per le lande, ha presto iniziato a combinarne di ogni, dalle Dolomiti al Gran Sasso, dalle isole del Mediterraneo insino alla perfida Albione. Ha vissuto le rampichevoli epoche  degli Eighties&Nineties in tutto il loro dilettevole orrore innaffiando (con non poco vino) e coltivando un senso critico al vetriolo.

Pubblicato una settimana fa sulla rivista Alpinismi, che possiede tutti i diritti e che ringraziamo per la gentile concessione.

Parte 2 / 3
Andrea Imbrosciano
Andrea Imbrosciano
ar. Andrea Imbrosciano

Ha girato un po’ di mondo appassionandosi allo scalare bene (non per nulla collabora da secoli col buon Paolo Caruso) e al chiodare meglio (è coautore della regolamentazione per i siti di arrampicata voluta dalle associazioni di settore italiane). Insomma che nel giro di trent’anni montagnini, forse anche controvoglia, è diventato una specie di guida spirituale per quanto concerne sassi, sfalsate e burocrazie della verticale.

Odontotecnico protesista di professione, responsabile della formazione Tecnici sportivi Uisp Lega Montagna per amore dell’umanitàda più di dodici anni porta avanti con l’associazione Innatura asd, un progetto di sviluppo del territorio tramite attività outdoor con tanto di locanda sociale e centro di formazione nell’Alto Volturno dove tenta donchisciottescamente di inseguire ancora l’ultima utopia.

Lo incontro in una calda mattina di giugno a Orco nell’ormai mitico B&b Bed and Climb di Paola e Mauro. Andrea passerà buona parte della chiacchierata schiantato su un divano manipolando con noncuranza un cubo di Rubik che rimarrà a fine confabulazione immancabilmente irrisolto.

[Andrea osserva curioso i diversi fogli spantegati che mi circondano, mentre cerco di far partire il registratore.]

…. azz ma  quanto so’ lunghe ‘ste domande?

Ma guarda che è un’intervista seria.

Beh, ma allora ci vuole il vino!

Urka, già alle dieci di mattina!  Non so se ce la faccio a tenere i tuoi ritmi.

Dici? Mi sa che manco io ce la faccio. [E se la ride gaglioffo]

Dai, basta cincischiare. Andrea, ormai sei una specie di dinosauro: dimmi, cosa voleva dire nel lontano Giurassico, arrampicare in quel del Centro Italia? Come vi siete inventati questo strano gioco del salire e scendere per bricchi?

Mah, in effetti non lo so.

Dare una definizione adesso di quello che è stato allora non è affatto semplice. Anche perché adesso vivo una fase, non dico di totale rigetto, ma sicuramente sento come una volontà di dimenticare per fare meno fatica a vivere questo momento.

Allora era così e basta. Facevamo le cose senza star lì a porci nessuna questione di sorta. Certo, il maggior problema era l’etica, ma l’etica era anche legata al momento di cambiamento che stavamo vivendo.

Tentavamo di fare una cosa che gli altri non facevano: nel mio paese l’idea di attività fisica era legata quasi esclusivamente al calcio, non c’era proprio l’idea dell’arrampicata. Anche se devo dire che a Sora c’era un distaccamento di un battaglione degli Alpini, e questi Alpini non lontano dal paese avevano aperto alcuni itinerari su roccia.

Per quanto riguarda il Centro Sud non ti so dire bene, perché io non ho fatto parte dello sviluppo di questo Centro Sud. Io ho conosciuto prima quello che è successo nella provincia di Frosinone e poi  ho avuto a che fare con l’arrampicata romana, ma è una cosa  ben diversa.

Era sicuramente tutto un mondo da scoprire, con regole, bugie, falsità, imbrogli. Ma nessuno di noi si faceva allora alcun tipo di domanda. Si faceva e basta.

 

Andrea Imbrosciano
Andrea Imbrosciano
Andrea Imbrosciano

Ma quindi come ci sei arrivato tu all’arrampicata?

Da ragazzino abitando in questo luogo piuttosto montano – anche se degli amici del nord dicono che è tutto rotondo – praticamente andava per la maggiore fare attività escursionistiche o comunque di vita all’aperto. Poi con gli scout sai, si facevano a volte certe attività specifiche; fatto sta che mi è venuto proprio un desiderio. Ma è finito là! Da ragazzini salivamo sulle montagne lì intorno, senza pensare minimamente a quello che era il verticale.

Un giorno un mio amico, Fabrizio, che aveva una casa a Selva Nevea (località del Comune di Chiusaforte in provincia di Udine ndR), m’incominciò a dì: «eh, ma io tutti gli anni vado là, ci sta gente che sale le pareti!». E quindi automaticamente abbiamo incominciato a “vedere” anche noi la verticale. Ma erano tutte cose molto capresche: avevamo le imbragature fatte con le fettucce delle serrande, la corda l’avevamo comprata dal ferramenta. C’ avevamo quella che, più o meno, penso sia stata la comune attrezzatura alpinistica di quei soggetti che non hanno avuto punti di riferimento. Anche se a Sora c’era il CAI dal 1929, però, sai, eravamo completamente staccati da loro, non avevamo alcun tipo di rapporto.

E questo Fabrizio che tipo era?

Fabrizio adesso è un generale della Finanza, all’epoca  veniva dalla pallacanestro. Anch’io allora giocavo. Lui era un gigantone di unmetroenovanta, però era ormai stanchissimo di questa storia della pallacanestro, anche perché era il padre che lo costringeva a farlo. E ogni tanto si metteva in testa di fare queste cose. Lui si definiva un arrampicatore di croda, il cosiddetto crodaiolo. Avendo casa in quell’area lì spesso andava in Alpi Giulie o comunque lì vicino. E da lì poi abbiamo cominciato a fare quello che leggevamo su Le mie Montagne di Walter Bonatti.

Ma come, tu che inizi a scalare leggendo Bonatti?

Sì, praticamente, un anno mio fratello, che non sapeva assolutamente cosa regalarmi per un compleanno, passò davanti ad una bancarella e trovò ‘sto libro. Mi sembrava di avere in mano chissà che cosa. Intanto leggevo senza sapere nemmeno dove stavano ‘sti posti, non è che so’ mai stato un drago nella geografia, però…

Da lì ho cominciato a leggere e vedere. Erano per me dei racconti, non è che ci fosse un richiamo per andare a fare. Poi mano a mano che facevo cose in montagna con Fabrizio, allora uno cominciava a dì: «ah, ma allora questa cosa… questo è bello…», e così ci siamo fatti un calendario di attività per tentare di ripetere le stesse cose che aveva fatto lui, il Bonatti.

 

Andrea Imbrosciano
Andrea Imbrosciano
ar. Andrea Imbrosciano

Guarda che è ben strano perché a conoscerti un poco, mai avrei pensato questo tuo incontro libresco proprio con lui…

Ma infatti, dopo negli anni, mi sono accorto che nulla era condiviso tra me e questo personaggio.

Poi ho conosciuto una persona molto più grande di me che si chiamava Leone. Lui mi ha indirizzato alla cultura dell’arrampicata: Rehinard Karl, John Gill e tutti quanti gli altri. Questi si avvicinavano sicuramente molto di più al mio carattere o a quello che avrei voluto avere. Credo che comunque ‘sta storia di Bonatti sia stata come leggere un libro senza interrogarsi più di tanto perché lo avesse fatto, capito? Un po’ come per i libri di Maestri e di Messner . A me non è che mi sia mai fregato nulla di ‘sta lotta con l’alpe, non mi rimbalzava minimamente proprio. Però era un libro come un altro. Come leggere Moby Dick, poi non è che pensi di essere Achab, anzi più facilmente t’immagini d’essere la balena.

Poi quindi ti sei costruito un tuo immaginario alpinistico di riferimento?

In un certo senso sì, abbiamo costruito un nostro personalissimo Pantheon, ma con un muro altissimo, anche perché poi non avevamo la possibilità di andare fuori a verificare se quello che stavamo a fare era in linea con il resto d’Italia.

Guarda, io più vado avanti e più mi rendo conto che la storia di tutti è proprio questa qua: la difficoltà più grande, tanto più per noi che eravamo provinciali, era quella di mettersi a confronto. Non c’era alcun desiderio di andare a vedere cosa facessero gli altri, anzi ogni volta che qualcuno proponeva di uscire dai confini subito qualcun altro interveniva: «no, ma perché, stiamo così bene a casa!».  E questo è durato per parecchio tempo, non avevamo neanche diciott’anni allora. Questo ha sicuramente creato non poche difficoltà anche nella nostra maturazione personale: il desiderio continuo di appartenere ad un gruppo, a qualcosa, non è stato poi così fruttuoso.

A quel tempo stavamo sempre lì in questo famoso sito vicino a Sora, dove andavano anche gli Alpini; e ogni giorno aprivamo qualcosa. Non ci rendevamo manco conto di quello che stavamo a fare, però era così divertente.

Usciti da scuola andavamo là, dormivamo là, facevamo i muretti; c’eravamo inventati una specie di cucina economica fatta con tutti i disastri. Insomma, stavamo là. La vita all’aperto di un anormale soggetto di paese. Poi questa montagna, che si chiama Colle San Casto, è la montagna di tutti: un colle in mezzo alla città con un castello, un paese diroccato, sterrati, sentieri ripidi, rocce, alberi etc., un mondo a parte. Ecco era questo il nostro Pantheon, aldilà dei miti e delle mitologie. E infatti quando veniva qualcuno ci dava notevolmente fastidio. Sì, prima eravamo schivi, fuggitivi: appena si presentava qualcuno, anche solo se era a piedi a camminare tendevamo sempre ad evitare il confronto. Poi, tempo dopo ci capitò di fare una gita in Alpi Apuane e lì abbiamo capito che come noi facevano anche altri. Facevamo senza sapere perché lo facevamo. Almeno in quel periodo storico. Adesso saprei benissimo dirti cosa fare e come farlo.

L’avvicinamento all’arrampicata è stato dopo la scoperta delle montagne. Io avevo fatto già il Cervino e ancora non arrampicavo: la nostra inizialmente era un vita proprio di montagna, ecco anche perché l’influenza di Bonatti. La montagna ci interessava, l’arrampicata non sapevamo cosa fosse. Sì, avevamo visto ‘sti Alpini esercitarsi, però sai…

Non c’era in noi neppure l’aspetto romantico, perché ti devo dire la sincera verità che ogni volta che si andava sulle Alpi non è che sentissimo tutto ‘sto romanticismo. Anzi era una tortura di solito: ore e ore di treno per arrivare fino là, capitava spesso di essere trattati in modo sgradevole. Non eravamo poveri, ma neanche capaci di amministrare bene questi periodi di vacanza. E facevamo ‘ste vacanze di 3 mesi: arrivati ad agosto eravamo proprio dei barboni fatti a mestiere. Poi abbiamo iniziato a conoscere un sacco di gente quindi la situazione è diventata un po’ più familiare.

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